Troppa curiosità. Anche morbosa. E certamente troppe copie vendute per un libro del genere. E ancora troppo editing, e troppa esposizione televisiva. Parliamo di un esile libro, 140 pagine in tutto, pubblicato dalla casa editrice Fazi nel luglio scorso, e intitolato: “Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire”. L’autrice, Melissa P. con solo l’iniziale del cognome, è un’adolescente siciliana di 17 anni. Questo romanzo ha venduto fino ad oggi qualcosa come 500 mila copie. Un’enormità se si considerano le tirature e le vendite dei libri in Italia. Per capirci, sono molte più delle copie dei libri di Susanna Tamaro, di Giorgio Faletti e di buona parte degli autori italiani che pubblicano libri. Il motivo di questo successo, ormai è luogo comune, viene dal fatto che questo diario sia di fatto un memoriale erotico, un’educazione sentimentale di fine millennio di un’adolescente oggi.
Questa è soltanto una lettura assolutamente superficiale del fenomeno. Come è superficiale seguire un’altra diceria, che vedremo si rivelerà infondata, che la giovane Melissa sia nient’altro che un nome, e che dietro quest’operazione editoriale ci siano degli scaltri e abili editor che le hanno scritto un libro, o peggio ancora, che ci sia un autore nascosto, adulto, competente e cinico, che firma i suoi libri con il nome di una ragazzina di Catania. In realtà non c’è nulla di tutto questo. Anzi, il libro di Melissa è squisitamente un diario adolescenziale, scritto da una ragazza che ha fatto suo un certo modo di pensare la letteratura.
Cerchiamo allora di spiegare perché le 500 mila copie di Melissa sono un segno terribile di un modo di pensare il mondo e la scrittura, che non ha nulla di trasgressivo, ma che è una rappresentazione dell’osceno come luogo comune, dell’osceno come “messa in scena” di un immaginario che fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile. E che ha delle radici profonde nella tradizione letteraria, solo che questa tradizione è svuotata completamente, e di fatto è resa innocua.
Intanto l’espediente narrativo. Il libro di Melissa è scritto in forma di diario. Un diario che ha un procedere intermittente: tra una data e l’altra può passare anche qualche mese. Ma sotto ogni data, quasi sempre, viene anche indicata l’ora. Come se l’ora avesse un senso. Ma in realtà sono proprio i salti temporali a lasciare perplessi. Perché scrivere un diario così discontinuo, e poi indicare le ore? Avrebbe un senso se il racconto si sviluppasse giorno per giorno, magari con più di un appunto al giorno. Ma così ha poca importanza. La spiegazione viene da un modo contraddittorio di pensare e concepire il tempo. A metà strada tra una chat e il diario tradizionale. Come se lo specificare l’ora in cui è stato scritto un pensiero, o il racconto di qualcosa possa dare veridicità alla storia raccontata. In realtà genera semplicemente una reazione di diffidenza: “È passato molto tempo dall’ultima volta che ho scritto e non è cambiato pressoché nulla; mi sono trascinata in questi mesi e ho portato sulle mie spalle l’inadeguatezza nei confronti del mondo; vedo intorno solo mediocrità e mi fa star male persino l’idea di uscire”, scrive Melissa.
In realtà è molto difficile concepire un diario così staccato dalla quotidianità, ma soprattutto è difficile concepire un diario che non dia conto di dettagli secondari, di fattarelli che hanno importanza soltanto per chi scrive. Tipico dei diari è un atteggiamento bulimico verso i gesti, un fare indissolubile verso la scrittura, come se soltanto la scrittura fosse capace di restituire la vita nei suoi dettagli e nel suo scorrere. Ma Melissa ignora tutto questo. Precisissima nel descrivere i dettagli delle eiaculazioni dei suoi amanti, il più remoto pensiero e il desiderio più inconfessabile, ma assolutamente vaga, e molto spesso banale, per ogni altro episodio della sua vita che abbia a che fare con l’esistenza normale di una ragazzina di 15 anni.
La domanda è: perché? La risposta è più facile di quanto si pensi. L’idea di una letteratura erotica che assorbe tutti i luoghi comuni dell’erotismo. A cominciare dalla trasgressione intesa come svelamento. Ma svelamento a chi? Al diario, naturalmente, a cui Melissa si rivolge. E dunque al lettore: “Mi sento felice, diario, ho in corpo tanta euforia placata tuttavia dalla sensazione di beatitudine, una tranquillità piena e dolce m’invade tutta”.
Tanto è nitida, nel libro, la rappresentazione dell’osceno, tanto è approssimativa la riflessione dell’osceno. Persino stereotipata, e in questo decisamente letteraria. Solo che è una letteratura mal digerita, letta poco, e figlia di pochi libri, e approssimativi. Non è un caso che il libro di Melissa si apra con una citazione di Gustav Klimt e di Marlene Dietrich (due poster che la ragazzina ha nella sua stanza), ma poi, quando va a descrivere la libreria di un amico, Melissa si ferma a un generico “c’erano molti libri”. Non legge i titoli dai dorsi, perché non sa quanto può essere importante descriverli e raccontarli. In questo miscuglio di ingenuità e paraletteratura si gioca un evento editoriale su cui bisognerebbe riflettere. Attraverso un gioco di vero e di falso indistinguibile. False le descrizioni erotiche, e non tanto perché non le sia accaduto quello che racconta, ma perché nell’esasperazione di quel racconto si legge un modo di vivere l’erotismo che non è il suo, ma è di tutto il mondo che la circonda. Vere le sensazioni angosciose del dopo. Solo che la scrittura (ma questo Melissa non lo sa) è ambigua e capovolge tutto. Il vero diviene finzione, con tutto l’armamentario di avverbi prevedibili di cui è infarcito il libro, e il racconto del suo sentire si fa disperatamente vuoto e inconcludente. Per cui la sensazione che hai nella lettura del libro è quella di un circolo vizioso. L’erotismo non è mai scoperta del mondo, il mondo non entra mai nel racconto del suo erotismo: “Vorrei accarezzarle la testa, visitare il suo isolotto con il mio respiro, procurarle un festa in tutto il corpo”.
L’idea del godimento come totalità, come pienezza di sensazioni è un’idea letteraria. Sarebbe facile dire che dietro c’è Bataille, e c’è Barthes, e c’è persino Klossowsky. Ma sono echi lontani, di autori mai letti, passati in questo libro attraverso giri viziosi che escono dall’immagine che l’erotismo si è dato attraverso l’erotismo nella fotografia, e di un certo cinema. Per dirla più concretamente è un’idea letteraria filtrata dai rotocalchi e dalle foto di Helmut Newton. Per quanto possa sembrare curioso, qui è tutto terribilmente semplice. Anche quando sembra l’opposto. Per dirla con Melissa, dobbiamo andare a un’annotazione del 4 aprile, che comincia in un modo fortemente letterario, e finisce con una frase tipicamente adolescenziale: “Diario, ti scrivo da una camera d’albergo; sono in Spagna a Barcellona”. E poi subito: “Sono in gita con la scuola e mi sto divertendo parecchio anche se la prof acida e ottusa mi guarda storto quando dico che non voglio visitare i musei…”. Evocativa, certo, come avrebbe continuato Ana_s Nin dopo aver detto di trovarsi in un albergo di Barcellona? Ma sono sprazzi che si interrompono con prof acide e con musei noiosi.
Qualcosa non passa. Le manca un’idea del mondo. È una ragazzina alla quale hanno regalato vestiti non suoi, e che non sa portare. È la fotografia di una bambina che si veste in modo provocante, senza capire cosa sia veramente l’idea della provocazione. Melissa non lo sa, ma la sua idea dell’erotismo, a cominciare dall’ossessione dello specchio, che ricorre di continuo nel testo e nel paratesto di questo libro (persino in copertina c’è uno specchio) è una rappresentazione che non le appartiene e che non sa capire. Soprattutto perché è un’idea maschile. E qui sta il secondo nodo del libro. Che, siamo sicuri, piaccia più agli uomini piuttosto che alle donne. L’idea maschile del piacere come voyeurismo, e dell’erotismo come messa in scena, ovvero come oscenità. “Lo tiro verso di me e sento i miei umori su di lui. Palpo sotto la tunica e sento il suo membro eretto e bellissimo sotto la mia mano che fruga sempre più affannosamente… Il suo pene sotto la tunica vuole uscire io lo aiuto alzando il manto nero”. In queste parole c’è una buona parte della tradizione letteraria erotica della seconda metà dell’Ottocento, quando la scrittura alla Sade lascia il posto ad autori che avevano portato il naturalismo di Zola nel territorio della scrittura erotica. Non c’è collegamento tra le riflessioni di una ragazzina di oggi e una scrittura che strizza l’occhio persino certi dannunzianesimi soltanto sbirciati: “Era nuda e candida nel corpo e nei pensieri… ho continuato a osservarli con la pelle incandescente per le fiamme rosse del camino”. Anche perché, poche righe più in là, ritorna l’altro registro: “L’inverno mi appesantisce, in tutti i sensi… Sveglia prestissimo, scuola, litigi con i professori, tornare a casa, fare i compiti… “. Ma fate attenzione, non c’è cattiva fede in questa schizofrenia narrativa, in questa continua duplicità. Perché non è voluta. È semplicemente il frutto di un’idea della letteratura, ma ancor prima della scrittura, che è modernissima e inutile. Che prende stilemi ovunque, e ovunque si trovino. Quello del diario adolescenziale, quello dei libri erotici letti e fatti propri, forse proprio mentre scriveva questo testo che, al pari di “Va’ dove ti porta il cuore”, ha la forma del diario. Ovvero la forma più comprensibile e più semplice di rappresentare il tempo, le cose e gli eventi.
Melissa racconta che tutto quello che ha scritto corrisponde a verità. Dunque autentica il diario come frutto di un’esperienza vissuta. È una condizione per lei necessaria. Ed è una condizione necessaria per l’editore, che sa bene quanto il valore letterario di queste pagine sia poca cosa. E dunque sa che può pubblicarlo solo sotto giuramento di autenticità.
Ma è un boomerang. L’autenticità di questo diario diventa sopportabile proprio nel momento in cui si rivela come artificio. Senza moralismi, ma con un certo realismo, sarebbe quasi inaccettabile un diario di una tredicenne, il racconto di orge e di mortificazioni psicologiche, se dietro l’autenticità non ci fosse il pensiero che tutto è letterario, tutto è finzione, scrittura, narrativa: in una parola letteratura.
In questa contraddizione cupa, irrisolta, e francamente persino noiosa si gioca il successo clamoroso di questo libro. I 500 mila italiani sono morbosamente attratti non da un percorso di vita, ma dall’idea di sbirciare dal buco della serratura una ragazzina posseduta da troppi uomini contemporaneamente.
E in queste 500 mila copie vendute e destinate ad aumentare, c’è il fallimento autentico di un’idea della letteratura, di qualunque genere essa sia, che è un fallimento mediatico. Lei, Melissa, che si mostra alle telecamere, e dice, paradossalmente e ingenuamente: “Melissa c’est moi”.
Questa è soltanto una lettura assolutamente superficiale del fenomeno. Come è superficiale seguire un’altra diceria, che vedremo si rivelerà infondata, che la giovane Melissa sia nient’altro che un nome, e che dietro quest’operazione editoriale ci siano degli scaltri e abili editor che le hanno scritto un libro, o peggio ancora, che ci sia un autore nascosto, adulto, competente e cinico, che firma i suoi libri con il nome di una ragazzina di Catania. In realtà non c’è nulla di tutto questo. Anzi, il libro di Melissa è squisitamente un diario adolescenziale, scritto da una ragazza che ha fatto suo un certo modo di pensare la letteratura.
Cerchiamo allora di spiegare perché le 500 mila copie di Melissa sono un segno terribile di un modo di pensare il mondo e la scrittura, che non ha nulla di trasgressivo, ma che è una rappresentazione dell’osceno come luogo comune, dell’osceno come “messa in scena” di un immaginario che fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile. E che ha delle radici profonde nella tradizione letteraria, solo che questa tradizione è svuotata completamente, e di fatto è resa innocua.
Intanto l’espediente narrativo. Il libro di Melissa è scritto in forma di diario. Un diario che ha un procedere intermittente: tra una data e l’altra può passare anche qualche mese. Ma sotto ogni data, quasi sempre, viene anche indicata l’ora. Come se l’ora avesse un senso. Ma in realtà sono proprio i salti temporali a lasciare perplessi. Perché scrivere un diario così discontinuo, e poi indicare le ore? Avrebbe un senso se il racconto si sviluppasse giorno per giorno, magari con più di un appunto al giorno. Ma così ha poca importanza. La spiegazione viene da un modo contraddittorio di pensare e concepire il tempo. A metà strada tra una chat e il diario tradizionale. Come se lo specificare l’ora in cui è stato scritto un pensiero, o il racconto di qualcosa possa dare veridicità alla storia raccontata. In realtà genera semplicemente una reazione di diffidenza: “È passato molto tempo dall’ultima volta che ho scritto e non è cambiato pressoché nulla; mi sono trascinata in questi mesi e ho portato sulle mie spalle l’inadeguatezza nei confronti del mondo; vedo intorno solo mediocrità e mi fa star male persino l’idea di uscire”, scrive Melissa.
In realtà è molto difficile concepire un diario così staccato dalla quotidianità, ma soprattutto è difficile concepire un diario che non dia conto di dettagli secondari, di fattarelli che hanno importanza soltanto per chi scrive. Tipico dei diari è un atteggiamento bulimico verso i gesti, un fare indissolubile verso la scrittura, come se soltanto la scrittura fosse capace di restituire la vita nei suoi dettagli e nel suo scorrere. Ma Melissa ignora tutto questo. Precisissima nel descrivere i dettagli delle eiaculazioni dei suoi amanti, il più remoto pensiero e il desiderio più inconfessabile, ma assolutamente vaga, e molto spesso banale, per ogni altro episodio della sua vita che abbia a che fare con l’esistenza normale di una ragazzina di 15 anni.
La domanda è: perché? La risposta è più facile di quanto si pensi. L’idea di una letteratura erotica che assorbe tutti i luoghi comuni dell’erotismo. A cominciare dalla trasgressione intesa come svelamento. Ma svelamento a chi? Al diario, naturalmente, a cui Melissa si rivolge. E dunque al lettore: “Mi sento felice, diario, ho in corpo tanta euforia placata tuttavia dalla sensazione di beatitudine, una tranquillità piena e dolce m’invade tutta”.
Tanto è nitida, nel libro, la rappresentazione dell’osceno, tanto è approssimativa la riflessione dell’osceno. Persino stereotipata, e in questo decisamente letteraria. Solo che è una letteratura mal digerita, letta poco, e figlia di pochi libri, e approssimativi. Non è un caso che il libro di Melissa si apra con una citazione di Gustav Klimt e di Marlene Dietrich (due poster che la ragazzina ha nella sua stanza), ma poi, quando va a descrivere la libreria di un amico, Melissa si ferma a un generico “c’erano molti libri”. Non legge i titoli dai dorsi, perché non sa quanto può essere importante descriverli e raccontarli. In questo miscuglio di ingenuità e paraletteratura si gioca un evento editoriale su cui bisognerebbe riflettere. Attraverso un gioco di vero e di falso indistinguibile. False le descrizioni erotiche, e non tanto perché non le sia accaduto quello che racconta, ma perché nell’esasperazione di quel racconto si legge un modo di vivere l’erotismo che non è il suo, ma è di tutto il mondo che la circonda. Vere le sensazioni angosciose del dopo. Solo che la scrittura (ma questo Melissa non lo sa) è ambigua e capovolge tutto. Il vero diviene finzione, con tutto l’armamentario di avverbi prevedibili di cui è infarcito il libro, e il racconto del suo sentire si fa disperatamente vuoto e inconcludente. Per cui la sensazione che hai nella lettura del libro è quella di un circolo vizioso. L’erotismo non è mai scoperta del mondo, il mondo non entra mai nel racconto del suo erotismo: “Vorrei accarezzarle la testa, visitare il suo isolotto con il mio respiro, procurarle un festa in tutto il corpo”.
L’idea del godimento come totalità, come pienezza di sensazioni è un’idea letteraria. Sarebbe facile dire che dietro c’è Bataille, e c’è Barthes, e c’è persino Klossowsky. Ma sono echi lontani, di autori mai letti, passati in questo libro attraverso giri viziosi che escono dall’immagine che l’erotismo si è dato attraverso l’erotismo nella fotografia, e di un certo cinema. Per dirla più concretamente è un’idea letteraria filtrata dai rotocalchi e dalle foto di Helmut Newton. Per quanto possa sembrare curioso, qui è tutto terribilmente semplice. Anche quando sembra l’opposto. Per dirla con Melissa, dobbiamo andare a un’annotazione del 4 aprile, che comincia in un modo fortemente letterario, e finisce con una frase tipicamente adolescenziale: “Diario, ti scrivo da una camera d’albergo; sono in Spagna a Barcellona”. E poi subito: “Sono in gita con la scuola e mi sto divertendo parecchio anche se la prof acida e ottusa mi guarda storto quando dico che non voglio visitare i musei…”. Evocativa, certo, come avrebbe continuato Ana_s Nin dopo aver detto di trovarsi in un albergo di Barcellona? Ma sono sprazzi che si interrompono con prof acide e con musei noiosi.
Qualcosa non passa. Le manca un’idea del mondo. È una ragazzina alla quale hanno regalato vestiti non suoi, e che non sa portare. È la fotografia di una bambina che si veste in modo provocante, senza capire cosa sia veramente l’idea della provocazione. Melissa non lo sa, ma la sua idea dell’erotismo, a cominciare dall’ossessione dello specchio, che ricorre di continuo nel testo e nel paratesto di questo libro (persino in copertina c’è uno specchio) è una rappresentazione che non le appartiene e che non sa capire. Soprattutto perché è un’idea maschile. E qui sta il secondo nodo del libro. Che, siamo sicuri, piaccia più agli uomini piuttosto che alle donne. L’idea maschile del piacere come voyeurismo, e dell’erotismo come messa in scena, ovvero come oscenità. “Lo tiro verso di me e sento i miei umori su di lui. Palpo sotto la tunica e sento il suo membro eretto e bellissimo sotto la mia mano che fruga sempre più affannosamente… Il suo pene sotto la tunica vuole uscire io lo aiuto alzando il manto nero”. In queste parole c’è una buona parte della tradizione letteraria erotica della seconda metà dell’Ottocento, quando la scrittura alla Sade lascia il posto ad autori che avevano portato il naturalismo di Zola nel territorio della scrittura erotica. Non c’è collegamento tra le riflessioni di una ragazzina di oggi e una scrittura che strizza l’occhio persino certi dannunzianesimi soltanto sbirciati: “Era nuda e candida nel corpo e nei pensieri… ho continuato a osservarli con la pelle incandescente per le fiamme rosse del camino”. Anche perché, poche righe più in là, ritorna l’altro registro: “L’inverno mi appesantisce, in tutti i sensi… Sveglia prestissimo, scuola, litigi con i professori, tornare a casa, fare i compiti… “. Ma fate attenzione, non c’è cattiva fede in questa schizofrenia narrativa, in questa continua duplicità. Perché non è voluta. È semplicemente il frutto di un’idea della letteratura, ma ancor prima della scrittura, che è modernissima e inutile. Che prende stilemi ovunque, e ovunque si trovino. Quello del diario adolescenziale, quello dei libri erotici letti e fatti propri, forse proprio mentre scriveva questo testo che, al pari di “Va’ dove ti porta il cuore”, ha la forma del diario. Ovvero la forma più comprensibile e più semplice di rappresentare il tempo, le cose e gli eventi.
Melissa racconta che tutto quello che ha scritto corrisponde a verità. Dunque autentica il diario come frutto di un’esperienza vissuta. È una condizione per lei necessaria. Ed è una condizione necessaria per l’editore, che sa bene quanto il valore letterario di queste pagine sia poca cosa. E dunque sa che può pubblicarlo solo sotto giuramento di autenticità.
Ma è un boomerang. L’autenticità di questo diario diventa sopportabile proprio nel momento in cui si rivela come artificio. Senza moralismi, ma con un certo realismo, sarebbe quasi inaccettabile un diario di una tredicenne, il racconto di orge e di mortificazioni psicologiche, se dietro l’autenticità non ci fosse il pensiero che tutto è letterario, tutto è finzione, scrittura, narrativa: in una parola letteratura.
In questa contraddizione cupa, irrisolta, e francamente persino noiosa si gioca il successo clamoroso di questo libro. I 500 mila italiani sono morbosamente attratti non da un percorso di vita, ma dall’idea di sbirciare dal buco della serratura una ragazzina posseduta da troppi uomini contemporaneamente.
E in queste 500 mila copie vendute e destinate ad aumentare, c’è il fallimento autentico di un’idea della letteratura, di qualunque genere essa sia, che è un fallimento mediatico. Lei, Melissa, che si mostra alle telecamere, e dice, paradossalmente e ingenuamente: “Melissa c’est moi”.