Melissa Panarello è una donna che fa parlare di sé e non solo per il retaggio che si porta dietro fin dall’esordio con il romanzo scandalo Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire (Fazi, 2003).

Determinata, franca e capace di restare se stessa sia nella finzione di un libro che davanti alle telecamere di un reality, vive da anni a Roma, circondata dagli amati gatti, e da lì guarda la realtà e la Sicilia con il solito sorriso un po’ smagato che, prima di tutto, rivela la distanza esistente tra l’immagine che il pubblico ha di lei e la sua vera essenza. Ha appena terminato il nuovo romanzo ancora top secret e sta lavorando per la Francia a una sceneggiatura cinematografica.

In un periodo in cui di uomini e donne e di rapporti non sempre canonici tra i sessi, si parla molto, il suo punto di vista non è secondario.

Melissa, il movimento #MeToo e le denunce delle donne del mondo dello spettacolo riguardo alle molestie subite in ambito lavorativo hanno portato alla ribalta un problema sempre esistito. In Italia si sono accese le polemiche, in Francia la Deneuve ha firmato con altre cento donne un manifesto sulla libertà degli uomini di importunare e la Bardot ha condannato recisamente le colleghe americane. Qual è la sua posizione?

Io mi colloco al centro. Vedo comunque come un fatto positivo questa molteplicità di atteggiamenti perché la molteplicità stessa è fondamentale sempre ma soprattutto sui temi femminili. Riguardo al pensiero della Deneuve, credo sia legato a un fatto generazionale: lei appartiene a un tempo in cui gli uomini erano stimolati dalla stessa società a un certo tipo di proposta e le donne accettavano perché rientravano in quello schema mentale. Oggi non è più così, la donna vuole più fortemente autodeterminarsi e non accetta di sottostare a profferte sessuali per raggiungere un obiettivo. D’altra parte, però, abbracciare in toto le posizioni di chi ha denunciato può essere un’esagerazione, sia perché mi pare che si sia creata una sorta di isteria collettiva, sia perché, in fondo, alle donne piace sentirsi desiderate, corteggiate e, portando all’estremo le posizioni del #MeToo, si rischia l’infelicità.

Vuole dire che c’è un po’ di ipocrisia?

C’è ipocrisia. Non ho apprezzato che le attrici americane abbiano associato le loro denunce al fatto di vestirsi di nero. Il nero è lutto e nel momento in cui alzi la testa e denunci, dovrebbe essere una festa, bisognerebbe vestirsi a colori perché la denuncia è una conquista. Sono stanca del fatto che le donne vogliano sempre passare per vittime. Mi è capitato per esempio di sentire amici registi, lamentare le avances troppo pressanti di certe attrici e ho sempre detto loro: denunciate anche voi! Perché tutti devono poter rivendicare un diritto.

Le molestie colpiscono anche le scrittrici?

Non in questi termini. A me non è mai capitato ma… forse perché ho scritto molto di sesso.

Vuol dire che con lei scrittori ed editori soffrono l’ansia da prestazione?

Temo di sì (ride). O, più probabilmente, nel mondo dell’editoria si fa poco sesso.

Quindi una scrittrice che parla di sesso è meno preda di avances sconvenienti?

I lettori a volte esagerano quando mi scrivono ma solo perché hanno un’idea di me che non corrisponde alla realtà. Se poi mi conoscono si rendono conto della differenza.

Parliamo della sua terra. La Sicilia è la patria del gallismo. Lei non vive più a Catania da anni ma, quando ci torna, nota dei cambiamenti rispetto al passato?

Vengo raramente in Sicilia e, quando lo faccio, me ne sto con poche persone ma osservo, anche da lontano, e qualcosa è cambiato. La Sicilia di Brancati non esiste più, il maschio gallo non è più il prototipo associabile alla mia terra e questo mi dispiace. Perché il maschio brancatiano era un personaggio molto più complesso di quanto si possa pensare, era una figura superbamente ambigua perché la sua prorompenza rivelava anche la sua estrema vulnerabilità. Era un romantico, ecco. I siciliani che ricordo avevano poi questa propensione a far combutta, al branco che è un retaggio arabo quindi una componente culturale e sessuale che a me è sempre sembrata bella ma che, purtroppo, si è persa. I maschi siciliani di oggi non sono troppo diversi da tutti gli altri.

E le siciliane?

Il discorso è più ampio. Io, come molti siciliani, vengo da una famiglia matriarcale e dunque ho delle donne un’immagine molto forte: persone che non si sottoponevano alle leggi maschili ma le introiettavano e le rigiravano a loro favore. Le siciliane di oggi le vedo diverse e credo che anche loro abbiano perso così qualcosa di importante della loro natura: si sono adeguate e hanno dimenticato di essere selvatiche. Dovrebbero recuperare il loro feminimo.

Sta parlando di omologazione?

Tra uomo e donna c’è una crepa che non si riempie. A me piace dire che gli uomini sono cani, ti saltano solle gambe e cercano le carezze; le donne sono gatti, altere, eleganti e si concedono quando vogliono loro. Devono essere pari nei diritti e nei doveri ma non uguali.

Quando parla di diritti, pensa anche alla violenza sulle donne e ai femminicidi?

Voglio poter leggere la violenza anche da un punto di vista simbolico perché l’uomo si esprime anche attraverso l’aggressività. D’altra parte, la società nega questi lati in ombra; per esempio si parla poco del “femminile oscuro”. Io sono siciliana e la mia terra è tutta basata sull’elemento femminile archetipico: ha un nome femminile, ha l’Etna che è femmina… lo ripeto sempre che, fuori dalla Sicilia, nessuno ha davvero la percezione chiara di cosa la Sicilia sia.

Emanuela E. Abbadessa

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