Elizabeth Strout fa dire a uno dei suoi personaggi che tutti noi abbiamo un’unica storia da raccontare e il compito di chi scrive è declinarla in modi sempre diversi, libro dopo libro. Se è vero, come credo, Sara Fruner possiede nel proprio sangue una storia potentissima che è quella del legame con le persone che ci hanno ora generato ora solo cresciuto, e sa come rinnovarla romanzo dopo romanzo. In “La notte del bene”, riprende quello che ne “L’istante largo” aveva già anticipato, con la rara grazia delle sue parole di poeta, quale è. Se nel romanzo d’esordio il protagonista quindicenne ricostruisce la propria storia famigliare partendo dalla nonna che lo ha allevato, fino ad arrivare a scoprire di avere avuto non una ma ben tre mamme, le vicende in questo ultimo romanzo pubblicato sempre da Bollati Boringhieri si fanno ancora più squamose, misteriose e capaci di avvolgere in lettore in vortice fatto di dna e spavento. Senza rivelare nulla, poiché romanzo dai molti colpi di scena, si può di certo dire che l’autrice pone a sé stessa e a chi legge una domanda scomodissima che tutti ci facciamo a un certo punto della nostra vita: a chi apparteniamo? Ettore, per esempio, è figlio dei Festi che lo hanno adottato. Abbandonato neonato nella ruota degli esposti, cresciuto poi in un orfanotrofio, viene accolto da due coniugi posati che hanno tutta l’aria di avere i capelli sempre in ordine, ma “L’’amore, quello che Ettore credeva cucito a doppiofilo nella carne, quello che leggeva negli occhi di un animale quando il cucciolo era in pericolo, o che scorgeva al parco, quando un compagno cadeva, e la madre interrompeva discorsi e si precipitava in suo soccorso, lupa e mannara, quello era altro”. Perché Alberta e Oliviero “prima chiudevano una conversazione, poi si avviavano”. E poi c’è Elena, l’insondabile donna dai capelli color miele, che da bambina sparisce per tre giorni e viene ritrovata su una panchina e non ricorda niente di quanto successo, un episodio che per lei sarà sempre il buco, un vuoto di tre giorni nella sua vita che non sa con quali immagini riempire. Si trovano, si piacciono, si innamorano e poco dopo il matrimonio, nel momento meno propizio alla coppia tutta protesa al raggiungimento della soddisfazione professionale (lui è architetto, lei dottoranda in letteratura), concepiscono Enea. Il bambino rompe l’incanto, rende Elena irrequieta, prima estranea al suo corpo, poi estranea a sé stessa, fino ad assottigliare sempre di più la sua identità, diluita fra pensieri neri e psicofarmaci. Ettore, dal canto suo, ritrova l’amore tiepido dei genitori adottivi, diventa come loro, ingoiato da un lavoro poco affascinante da impiegato alla sovrintendenza, sempre più distante da Elena e dalla vita che avevano appena cominciato ad abbozzare insieme. Quando ci si allontana si scelgono le strade ora del silenzio ora del frastuono che non impegna e i due sposi vanno incontro a entrambe le cose, Ettore con i suoi colleghi di lavoro e quella spogliarellista che non toccherà mai ma dalla quale si farà toccare il cuore, Elena scendendo negli inferi del dolore solitario. Enea, fra loro, figura innocente perché non deve decidere, non deve scegliere ed è lui, e solo lui, a essere sovrastato dalle conseguenze di una famiglia che esplode in tutti i sensi. Fruner va oltre l’epica della famiglia infelice, che certo ha generato indimenticabili capolavori, e scrive di famiglie bizzarramente assemblate che le piace decostruire per poi rifondarle in purezza, eliminando tutto quello che non serve alla sopravvivenza di quella fiamma inestinguibile che è l’amore genitoriale. Come i bravi scrittori, non è in grado di darci risposta alla domanda che è stata posta poco fa, ma ne continua a fare di altre: siamo il frutto della genetica o della cultura? Cosa sopravvive, in noi, di chi ci ha generato pur non avendolo mai conosciuto? E l’amore per i figli, e per i figli dei figli, è un atto di fede o un atto dovuto? Ognuno ha la propria risposta perché ognuno ha la propria storia. 

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