Se i romani sapessero che sparse per la città esistono luoghi dove i fulmini sono stati seppelliti e che costituirebbero il portale fra il regno dei vivi e il regno dei morti, forse tornerebbero ad apprezzare e rispettare questa Roma antichissima e magica che, come scrive Matteo Trevisani, è una città in cui tutto ciò che c’è di vero sta sottoterra

Con il Libro dei fulmini (ed.Atlantide, 22 euro)  l’autore ci presenta due realtà. La prima, che attiene alla dimensione dello spazio e del tempo in cui le vicende narrate avvengono, è un labirinto urbano dove il protagonista, omonimo, compie la propria indagine alla ricerca delle tombe dei fulmini. Secondo la religione dell’Antica Roma, il dio infernale Summano, divinità che governava (immagino lo faccia ancora) i fenomeni notturni, scagliava dei fulmini che avevano il potere di aprire un varco fra il mondo dei vivi e quello dei defunti. Per riportare l’equilibrio naturale delle cose, ovvero impedire ai vivi e ai morti di toccarsi, i sacerdoti officiavano un vero e proprio funerale che prevedeva la tumulazione del fulmine nel punto esatto in cui era caduto. La tomba veniva quindi ricoperta da una lapide che riportava la sigla FCS, Fulgur Conditum Summanium: qui è seppellito il fulmine di Summano. 

Basterebbe questo a fare innamorare del Libro dei fulmini, ma c’è molto altro. Prendiamo l’altra realtà, quella del labirinto magico dove questa volta il protagonista non ci conduce, ma in qualche modo viene condotto. Un luogo dove è facile perdersi e dimenticarsi, ma in cui è anche possibile incontrare il proprio animus, connotato come un bambino un po’ selvatico,  o il proprio doppleganger, o alcuni dei fantasmi che si aggirano per la città ignorando di essere passati a un’altra dimensione; in questo labirinto antico e meraviglioso e spaventoso anche il sesso perde la sua natura carnale e terrena, si sradica, quasi i corpi si smaterializzassero, e diventa pontifex, capace di trasportare Matteo e Silvia, la misteriosa ragazza con cui intreccia una relazione, in mondi altri che hanno la consistenza dei sogni ma tutta la potenza delle cose vere. Quello che compie Matteo è quindi un viaggio dove è possibile trovare un nuovo senso di sé, dove la morte non è fine ma inizio. Ed è questo a rendere il libro, prima di tutto, un romanzo di formazione e anche ottimamente riuscito. 

Colpisce la maturità del linguaggio, la precisione dell’uso della lingua, come se a scrivere fosse stato un anziano saggio e non un giovane autore al suo esordio. Come suggerisce la bella copertina del romanzo (Atlantide sulle copertine non sbaglia un colpo), il tema del doppio non è solo nella struttura del racconto, ma anche nella forma. Come se nello stesso momento l’autore fosse stato investito da tutta l’innocenza del puer e da tutta l’autorevolezza del senex. Le atmosfere, le visioni, le magie tendono a soverchiare la realtà in cui il protagonista si muove e compie gesti ordinari come scattare una foto con il cellulare o girare per la città in motorino. Sono le descrizioni degli atti sessuali o delle visioni durante i sopralluoghi in quelle che il protagonista crede essere le tombe dei fulmini a risultare più efficaci. A riprova che tutto ciò che vale la pena sapere sta sempre nascosto. 

 

 

 

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