Una delle cose più violente che mi sia toccata vivere, è accaduta qualche mese dopo la pubblicazione del mio primo romanzo Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire sul finire del 2003, quando da lì a pochi giorni avrei compiuto diciotto anni. Ero stata invitata in un’università a parlare a dei giovani comunque più grandi di me, che di sicuro ero l’unica minorenne presente all’evento. Quel giorno, non solo il rettore mi negò l’accesso all’Aula Magna nonostante fosse stato lui stesso a invitarmi, ma mi toccò parlare affacciata da un balcone arrugginito a una folla di ragazzi e ragazze inferociti. Non con il rettore: con me. Mi odiavano, volevano vedermi morta e me lo urlavano con tutto il fiato che avevano, aggiungendo epiteti lontanissimi dal dolce stilnovo e molto vicini all’ingiuria. Dovetti lasciare il posto e infilarmi nel primo treno che mi avrebbe riportato a casa. Non è stata l’unica volta in cui sono stata insultata, derisa e umiliata verbalmente, è successo altre volte persino in tv, sui giornali, in radio, quello era un tempo in cui il politicamente corretto era ancora lontanissimo, i diritti delle donne valevano solo quando si trattava di tua madre o di tua sorella e la libertà femminile era ancora vista come una minaccia tanto dagli uomini quanto dalle altre donne. Quel giorno all’università, però, è stata la volta in cui ho sentito più forte il senso di ingiustizia, perché era di questo che per me si trattava: come potevano delle ragazze e dei ragazzi così giovani e vicini a me più di qualsiasi adulto, non capire che eravamo uguali? Molti me lo dicevano di nascosto, mi scrivevano lettere a mano, venti anni fa le e-mail si usavano poco. Mi sono riconosciuta in te. È come se avessi raccontato la mia storia. Io e te abbiamo vissuto le stesse cose, ma io non ho mai avuto il coraggio di dirlo. 

Agli occhi del mondo, però, tutto questo non si doveva sapere. Davanti ai genitori, agli insegnanti, ai propri compagni e amici, si doveva non solo fingere di condurre una vita irreprensibile, ma si doveva schiacciare chiunque intendesse scoperchiare quel grande vaso della vergogna. Perché se arriva una come me a dire che le ragazzine fanno sesso, e che gli piace pure, e che non si pentono, accadono molte cose e tutte in contraddizione fra loro: i ragazzi, per esempio, dicono che sei una poco di buono, ma desiderano finire a letto con te, anche solo per curiosità; le ragazze temono di essere scoperte perché tu hai parlato e allora, nel timore di apparire uguali a te, ne dicono di tutti i colori covando, nel silenzio della propria stanzetta, il desiderio di condividere con te le proprie esperienze, i propri dolori. Non mi sono mai sentita attaccata personalmente, ho sempre avuto chiaro che la persona con cui se la prendevano non ero io, ma l’immagine che si erano costruiti di me e questo mi ha permesso di sopravvivere agli attacchi e a non soccombere. Non ho mai avuto pentimenti di alcun tipo, soprattutto non ho mai desiderato dare un’immagine di me diversa da ciò che ero e da ciò che sono e questa totale trasparenza, che molto ha a che fare con l’ingenuità, un po’ con una spietata ricerca di indipendenza e persino con la vanità, l’ho pagata e mi sono sempre presa le responsabilità delle mie azioni. 

Quello che si chiede oggi a una ragazza è qualcosa di sovrumano, ovvero essere sempre e comunque piacevole e compiacente anche quando sta vivendo una situazione che non le piace in cui le vengono richieste prestazioni erotiche degne di una consumatissima pornostar, che fa perché non vuole apparire una buona a nulla. Allo stesso tempo, però, le chiedono di vergognarsi, perché quello che sta facendo è da donnaccia di strada, anche se a loro piace, anche se loro si stanno divertendo e lei magari non tanto e in certi casi proprio per niente. Il guaio è che tutto questo è penetrato così bene nel nostro modo di vivere il sesso, di suddividerlo per generi, che le ragazze per prime si scagliano contro le compagne che hanno osato troppo. Le ragazzacce non te le sposi, le porti a letto e te le scordi. Anche se nessuno usa più la parola matrimonio, è questo il pensiero che è rimasto nel substrato e ha inquinato quel viaggio bellissimo che è la scoperta di sé e del piacere. Basterebbe così poco: non vergognarsi del proprio corpo in festa, innanzitutto. Rivendicare con orgoglio di essere libere e liberi e non lasciarsi intimidire. E poi non è vero che le brave ragazze vanno in paradiso e le cattive vanno dappertutto: le cattive restano chiuse in un mondo brutto fatto di pregiudizi e di paura. Le brave ragazze godono e non hanno pentimenti e hanno sempre gli occhi belli. 

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