Quando io e il mio primo amore decidemmo di sposarci io ricevetti da lui un vecchio anello di famiglia e lui da me la promessa di amore eterno condita da innumerevole prole. Era il sogno romantico che ci eravamo concessi, sebbene entrambi fossimo pienamente coscienti che quel matrimonio non si sarebbe mai fatto. Io avevo insistito tanto: volevo il vestito, quello bello, la festa faraonica, i regali degli invitati. Lui voleva farmi contenta, così acconsentì alla mia proposta di matrimonio. Quand’ero bambina sognavo di diventare una suora per poter mettere il velo tutta la vita e andavo in giro per casa con in testa la veletta dei confetti regalati ai battesimi, mettevo un vestito bianco, uno qualsiasi, e strappavo i gerani dai vasi sul balcone ammucchiandoli in mazzetti. Mi sposavo con Spumone, orrendo pupazzo biondo con i capelli di lana. Poi, di notte, io e Spumone facevamo l’amore e una volta mia madre ci beccò, così io decisi di divorziare da lui per l’incredibile vergogna.

Queste storielle servano da premessa per assicurare che io sono una che al matrimonio ci tiene, esteticamente parlando. Come Nanni Moretti in Bianca, vorrei che tutti si sposassero, tutti accasati vorrei vederli, gli amici, i parenti, gli sconosciuti. Mi fa piacere, ecco.

Ma prima che io possa avanzare bianca e virtuosa verso l’altare è necessario che risolva la fobia per i contratti: per me un contratto non suggella mai un inizio, ma una fine. Accade con il lavoro, per esempio, quando un progetto partito con entusiasmo si trasforma in tortura di morte se nel frattempo qualcuno mi ha messo un foglio sotto il naso e io l’ho firmato. In quel momento il mio interesse verso il progetto crolla miseramente perché sento che non potrò più andare avanti spinta dalla forza della precarietà, dell’incertezza e dell’ignoto, enormi potenze che riescono a trasformare in un’avventura anche la più banale delle faccende. Come potrei dunque pensare di trasformare una spensierata convivenza in un matrimonio, con le sue leggi, le sue regole, i suoi codici?

Sento che, da qualche parte, molto in fondo, questo terrore verso i contratti siano in molti a covarlo. Persino Kate e William, sì. Nel momento in cui hanno firmato il loro contratto non hanno dato inizio a una nuova ed entusiasmante storia d’amore, ma a una società d’affari fondata sul reciproco scambio di favori e l’amore (potrebbe pure esserci, non ci è dato saperlo e non ci piacciono le congetture da cortile) è solo un’accidente, uno dei tanti ingredienti che amalgama il sodalizio. Se durante il fidanzamento l’amore e l’eros sono l’unico terreno in cui i due amati si cercano e si trovano, nel matrimonio è il terreno che diventa più importante dell’amore e dell’eros, spesso ingurgitando nelle sue viscere ogni sogno e speranza di vita romantica.

Prendiamo Alberto di Monaco e Charlene Wittstock: ammettiamo anche in questo caso che si siano amati di un amore folle, estremo, milioni e milioni di farfalle nello stomaco. Poi ogni farfallina è caduta miseramente sotto i colpi di fionda, terrorizzata dal contratto che Alberto e Charlene hanno concluso prima di apparire lucidi e sorridenti sui rotocalchi di tutto il mondo. Pare che il patto fra i due sia quello di divorziare una volta messo al mondo un erede. In luna di miele hanno dormito in camere separate, ma si spera che per qualche ora si siano incontrati così quest’erede lo fanno senza perdere altro tempo, ché non sono più tanto giovani. Insomma: un matrimonio con uno scopo preciso, chiaro, definito fin da subito. Qualcuno scioccamente sostiene che “non esistono più i matrimoni di una volta”, ma dimentica o forse non sa che una volta i matrimoni erano proprio questo: un accordo pratico, un’unione di interesse nella sua accezione positiva, senza cinismi. Quello che la maggioranza intende come matrimonio non è altro che il reflusso di una società borghese ancora giovane ma al suo drammatico declino. Il matrimonio per amore esiste da qualche secolo e sta scomparendo perché gli amanti hanno capito che non è un contratto a rendere saldo un amore, ma l’amore a rendere salde le speranze. In un mondo poi costituito in maggioranza da precari e disoccupati, non ha senso stringere patti di alleanza pratica perché lo scambio si riduce a zero.

I primi furono Micheal Douglas e Catherine Zeta Jones, che resero noti i termini del loro contratto senza ipocrisie e falsi pudori. Tutti gridarono allo scandalo, tutti lì con le bocche spalancate stupiti che quei due non si stavano sposando per amore, ma per denaro. Pensate quanto sarebbero apparsi ridicoli i nostri avi di centinaia d’anni fa se si fossero mostrati increduli davanti a un matrimonio d’interesse, che è persino un’espressione tautologica.

Nessun cinismo, quindi, in questi re e regine, questi vip plurimiliardari e plurisposati: assecondano l’identità stessa del matrimonio, non la mortificano, non alterano la sua struttura.

Questo è, da sempre.

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