Nei giorni in cui migliaia di famiglie collocavano il Bambin Gesù nel presepe, protetto da Maria, Giuseppe e omaggiato da Re Magi, in diverse città italiane quattro donne in stato di gravidanza sono morte insieme ai figli che portavano in grembo. Maria, anche quest’anno, ce l’ha fatta, loro no. Nonostante fossero al sicuro in un ospedale circondate da medici e l’altra in una stalla da un bue e un asino, nonostante siano passati più di duemila anni da quel primo venticinque dicembre, queste donne sono rimaste vittima di un sistema sanitario inefficiente ancora oggi incapace di evitare le morti in sala parto. Chi è donna sa che ogni gravidanza è un viaggio che non assomiglia a quello di nessun altra, così come il nostro corpo è una mappa con terre, oceani e confini diversi da quelli di chiunque: sappiamo muoverci bene nei nostri territori, sappiamo soprattutto che la gravidanza non è una malattia e che se stiamo male non è perché siamo incinte, ma perché qualcosa non funziona. Chiediamo aiuto, sperando che il medico che ci assiste sia abbastanza abile da leggere la nostra mappa, capisca dove è il problema e intervenga salvando la nostra vita e quella di nostro figlio e la maggior parte delle volte lo fa e la vita, per fortuna, continua. Che nel nostro tempo si possa ancora morire di parto è qualcosa di inaccettabile, eppure sono diversi i fattori che possono portare all’intollerabile epilogo e non sempre riescono a essere evitati. Ci si chiede allora perché gli ospedali non siano attrezzati a fronteggiare questi rischi, perché non ci sia una diversa attenzione verso una donna che presenta patologie pregresse o non strettamente collegate alla gravidanza o verso una donna che ha superato una certa età e che può andare incontro a un parto più difficile.

Se ogni gravidanza, come si diceva, è un viaggio a sé, diverso dovrebbe essere il trattamento verso ciascuna, seguendo appunto il percorso tracciato sulla sua mappa. Sorge però il sospetto che alcuni parti si rivelino tragici perché appare forse così remota l’eventualità di un errore, che non si presta la dovuta cura all’evento. Se fino a non moltissimi anni fa morire di parto era una possibilità e lo è anche oggi, allora cosa è davvero cambiato fra il passato e il presente? Sembrerebbe solo la drastica diminuzione di decessi, che avvenivano soprattutto perché i parti erano condotti in casa, seguiti nei migliori dei casi da un’ostetrica e nei peggiori dalla vicina di casa. I fattori di rischio, inoltre, non sono diminuiti, si sono semplicemente modificati e semplificati: se un tempo morire di parto dipendeva molto dalle scarse condizioni igieniche o dall’età molto giovane delle madri, dal tipo di alimentazione insufficiente a garantire un corretto funzionamento dell’organismo soprattutto in stato di gravidanza, oggi i rischi sono legati al tipo di vita che conduciamo, che porta molte donne a dover lavorare nonostante lo stato avanzato della gravidanza (l’inesistenza di una legge seria che permetta alle donne di mantenere il posto di lavoro durante la maternità in questi casi si sente moltissimo), a rimandare il momento in cui decidono di fare figli prediligendo età sempre più avanzate e a sottoporci a stress, tensioni e pressioni continue non più da un punto di vista fisico, ma psicologico. Questo, appunto, non significa che i rischi non esistono più e ci si augura che le strutture siano pronte a intervenire laddove richiesto.

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