PRIMA PARTE

Qualche tempo fa sono tornata dall’analista che mi ha seguito per un decennio e con cui sono rimasta in contatto dopo che il nostro percorso si era concluso, perché non puoi di colpo non avere più notizie da una persona che hai visto per dieci anni tutte le settimane. Ogni tanto lui mi chiede come sto, io gli rispondo che sto bene e ciò rende molto felici entrambi. Ma circa un anno fa ho cominciato ad avere strane fobie, a lavarmi spesso le mani quando non avrei avuto motivo di farlo, a sospettare oscure malattie laddove sentivo un leggero pizzicore alla tempia destra e a evitare di fare qualsiasi cosa potesse mettere in repentaglio la mia vita e la mia salute. È successo improvvisamente: sono diventata una persona paurosa. Quindi, sono diventata una persona adulta. Chiamai perciò il mio ex analista raccontandogli quello che mi stava succedendo e lui mi propose di andarlo a trovare.

Mi chiese cosa mi stava preoccupando in quel periodo. Risposi che mi preoccupavano le stesse cose che mi avevano sempre preoccupato, quindi non era preoccupante. Mi chiese di pensarci ancora un po’. Ma io più ci pensavo e più mi venivano in mente le solite cose: frustrazione a lavoro, soldi sempre troppo pochi,  faccende ordinarie che tutti si trovano ad affrontare. Scossi la testa “Mi spiace, non mi viene in mente niente”. Lui mi sorrise. Riconoscevo quel sorriso di chi sapeva che la risposta l’avevo già, dovevo solo trovare il coraggio di confessarla a me stessa. E quando vidi quel sorriso che per tanti anni è stata la mia disfatta e che segnava il momento in cui tutte le mie certezze crollavano, decisi di dire la prima cosa che mi sarebbe venuta in mente. E fu questa: “Un figlio!”. Diventò serio: il sorriso aveva funzionato. Avevo rivelato qualcosa di inaspettato: non poteva che essere la risposta esatta.

“Nel senso,” spiegai “che un figlio non lo voglio. Ti ricordi quando dieci anni fa venni da te dicendoti che volevo tantissimo un figlio? Non lo voglio più”. Ma mentivo. Era stata così inattesa la confessione pronunciata, che avevo provveduto ad alzare delle difese. Il fatto è che io non lo so se un figlio lo voglio o no.

Dieci anni fa lo volevo perché mi sembrava una bella avventura, io ero più coraggiosa e non mi curavo molto delle conseguenze delle mie azioni. L’avessi fatto a venti anni, mio figlio oggi ne avrebbe dieci. L’avessi fatto quando non avevo nessuna paura di gravidanza, parto, maternità, io tutte quelle cose le avrei già sperimentate. Se non avessi prestato attenzione a chi mi diceva che ero troppo giovane e che dovevo vivere i miei anni con molta spensieratezza e poca responsabilità, l’avrei fatto, cosciente di essere stata sempre poco spensierata e molto responsabile e che dieci anni fa, come adesso, amavo passare le serate a casa, compresi i weekend, a sorseggiare tisane mentre risolvevo cruciverba e sudoku. Avrei forse avuto meno occasioni, con un figlio, di quante ne ho effettivamente avute senza?

E quindi dieci anni fa io un figlio lo volevo ma non l’ho avuto perché ero la sola a vedermi come madre e così ho passato i successivi dieci anni a non pensare ai figli, alle gravidanze, a vivere le storie d’amore per quel che erano senza il bisogno di assicurare loro una crescita e un futuro. Non ci ho più pensato fino a quel pomeriggio in cui sono tornata dal mio analista e senza rendermene conto avevo dato a un figlio (o meglio, alla mancanza di) la responsabilità delle mie recenti ansie. Un antico desiderio si era improvvisamente trasformato in urgenza e, da quel che ne so, nessuna necessità ha in sé il seme del desiderio. O forse sì. Bisogna scavare fino allo strato più duro della terra per capirlo. Ed è quello che voglio fare.

L’idea di un figlio in me è mutata non solo nella sostanza, ma anche nella frequenza con cui mi veniva a trovare: ci penso tutti i giorni. È il primo pensiero della mattina e l’ultimo della sera, come un innamorato che non si può evitare di pensare. Fino a non molto tempo fa tutto questo fervore apparteneva alla scrittura e sebbene non abbia mai ritenuto vero, né tantomeno giusto, che un romanzo potesse essere considerato come un figlio (detesto quegli scrittori che affermano “Il mio libro è la mia creatura”: anche se è possibile che un romanzo possa tenerti sveglio di notte è davvero impossibile che ti vomiti sulla camicia e che abbia la diarrea), mi approcciavo alla scrittura con l’ossessione tipica di chi è innamorato, impedendomi divagazioni o pensieri altri che non fossero quelli che stavo trattando. Questa stessa ossessione si è adesso spostata, senza alcun intervento da parte mia, ma come un bisogno forte dell’inconscio, alla maternità. E la domanda è: come se ne esce? Per liberarmi di questo chiodo fisso sull’avere o non avere un figlio, che devo fare? Ovviamente la cosa più naturale sarebbe fare un figlio e non pensarci più. E come la mettiamo con tutte le paure, con le angosce, come la mettiamo se poi scopro che io quel figlio fatto buttandomi nell’ignoto con il naso tappato, non lo volevo?

SECONDA PARTE

A un certo punto, in un giorno d’agosto, non so perché ho detto a mia suocera questa cosa “Sai, io e tuo figlio vorremmo creare una famiglia nostra. Vorremmo fare un bambino”. Da quel che so, mia suocera non ha mai fatto al mio compagno la famosa domanda che tutte le madri rivolgono ai figli adulti, né ha mai parlato, almeno non in nostra presenza, del desiderio di diventare nonna. Credo la considerasse una remota possibilità, non qualcosa che a un certo punto della sua vita potesse effettivamente accadere. Me ne sono resa conto perché, nell’immediato, la notizia sembrava averla scioccata: per la prima volta nella sua vita non era riuscita a dire niente. La cosa mi preoccupò un po’, ma sperai che finisse lì: bene, pensai, se neanche lei vuole diventare nonna allora neanche io diventerò madre. Avevo trovato l’alibi perfetto. Ma il giorno dopo venne a dirmi che non era riuscita a chiudere occhio per quella faccenda del nipote e mi chiedeva, adesso, quando sarei rimasta incinta “O forse lo sei già?”. Le dissi che non lo ero e che non potevo sapere quando lo sarei stata e anche quella volta sperai che la questione finisse lì. Una settimana dopo invitò me e suo figlio a pranzo per parlarci “Ma non si può rimandare?” “No, è una questione urgente”. Andammo quindi a pranzo e davanti a un piatto di gricia, che lei ostina a chiamare “grigia”, ci chiese ancora quando l’avremmo resa nonna. Mi resi conto di aver spalancato le porte dell’inferno. Come facevo a quel punto a spiegarle che io non avevo ancora deciso se diventare madre? Quel giorno di agosto le volevo parlare di qualcosa che nel futuro prossimo sarebbe potuta accadere, non di un’intenzione che sarebbe presto diventata realtà. Mi ero spiegata male e ormai ero in trappola. Ci disse che non dovevamo preoccuparci, che lei ci avrebbe aiutato, che se la notte il bambino avesse pianto ci avrebbe pensato lei, che è insonne. Provammo a spiegarle che non era ancora il momento per parlare dell’organizzazione domestica, ma da allora tutte le settimane la domanda è “Allora, quando mi regalate un nipote?” e la risposta è, sempre, “Presto”. Ma presto non arriva mai, perché nel frattempo io non ho deciso niente e anzi più il tempo passa più mi abituo all’ordine attuale delle cose, un po’ come quelli che rimangono single a lungo e riescono poi con fatica a formare una coppia. Eppure, mentre continuo a dirmi che fare un figlio sarebbe deleterio per la mia salute mentale, per il lavoro e persino per la mia vita di coppia, leggo libri sulla gravidanza, il parto e l’allattamento, chiedo alle mie amiche come e dove hanno partorito, prendo nota delle migliori ostetriche della città, assumo acido folico tutti i giorni da almeno sei mesi e guardo documentari e programmi reality sulle sale parto: vittima di un istinto naturale strizzo un po’ gli occhi, mi tocco la parte bassa del ventre e sussurro, sommessamente, “ahia” mentre la donna nel video urla di dolore; infine il bambino nasce e io piango moltissimo e piango di più quando gli infilano il cappello di lana dopo averlo lavato. E mentre piango mi dico, spesso ad alta voce, che a me i bambini non piacciono, che sono meglio i gatti e io voglio molti gatti per tutta la vita, non voglio bambini. Non solo la ragione e l’istinto sono coinvolti in questa tenzone, persino il corpo manda segnali contraddittori: per fare un bambino si deve fare l’amore, questo è chiaro. E io, quando faccio l’amore, non penso più che sto solo facendo l’amore, ma penso che forse è questa la volta che accadrà nonostante tutte le precauzioni prese. Se da un lato mi spaventa il fatto che possa succedere, dall’altro faccio cose incomprensibili come mettere le gambe in alto come ho visto fare in diversi film di commedia dove lei provava a rimanere incinta. Mi dico che sarebbe proprio una bella cosa se succedesse, affidando la decisione al caso, senza dovermi prendere la responsabilità di scegliere e quando arrivano i primi sintomi premestruali sono convinta di essere incinta: il seno che fa male e cresce, l’irritabilità che in un attimo si trasforma in tenerezza verso tutte le cose viventi e non viventi del pianeta, la nausea. Ma in fondo al cuore so che sono solo le mestruazioni, eppure ci rimango sempre male quando arrivano e anche questo mese bisogna andare a comprare gli assorbenti, che non ci penso mai a farne una scorta. Poi mi chiedono se ho voglia di scrivere un racconto per un’antologia sull’orologio biologico e io accetto e scrivo un racconto su una donna che non vuole avere figli e spiega perché non li vuole e quella donna sono ovviamente io, ma io sono anche quella che legge quella donna pensando che sia un’idiota e che continua ad assumere integratori di acido folico e a fare analisi ormonali ogni sei mesi, a entrare nei negozi d’abbigliamento per bambini e comprare calzette e bavaglini, tute e cappottini.

C’è una donna falsa in me che va assolutamente sconfitta e l’unica che può farlo sono io.

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