Periodicamente saranno presentati racconti di scrittori e scrittrici in forma anonima seguiti da un questionario in cui dovrete indicare se secondo voi il racconto è stato scritto da un uomo o da una donna e di che fascia d’età. Potete votare una sola volta esprimendo due preferenze una per il sesso, l’altra per l’età, affidandovi esclusivamente al vostro intuito. L’intenzione di questo gioco è spazzare via ogni pregiudizio, un invito a  leggere un testo letterario per quello che è, senza l’ingombro del nome, dell’età e soprattutto del genere sessuale del suo autore, spesso motivo di discriminazione. Al termine della settimana di votazioni verrà rivelato il nome dello scrittore o della scrittrice.

 

                                                                     QUELLO CHE RESTA

 

I suoi genitori erano la madre e il nonno paterno. Quando a scuola venne a sapere che i genitori scopano tra di loro chiese spiegazioni al nonno.

“Che vuol dire che scopano?”

“Fanno l’amore. Fanno sesso.”

“Tipo baciarsi con la lingua e abbracciarsi?”

“Sì, però di più.”

“Quanto di più?”

A quel punto il nonno gli aveva mostrato una scena di sesso al computer, un pezzo di film pornografico su youporn.

“Tu e mamma scopate?”

“Non dire sciocchezze.”

Il colore dei corpi nel film non lo convinceva, troppo arancioni, sembravano di gomma.

“Ti piace? Vorresti farlo pure tu?”

“Bè, no. Preferirei di no. E poi io sono un bambino.”

A quanto gli diceva suo nonno, da una certa età in poi tutti scopano o comunque tutti vorrebbero farlo. Quell’uomo era una formidabile fonte di informazioni. Poi morì. Suo nonno come suo padre. 

Sarà stato anche vero che tutti scopano ma lui non se ne era mai accorto, non aveva mai visto nessuno scopare. Quello su cui non aveva dubbi invece è che tutti muoiono. 

Il giorno prima di morire il nonno lo aveva portato nel boschetto che confina col giardino di casa. Un sabato mattina di settembre, l’estate ancora nelle piante, negli insetti. Lo aveva tirato giù dal letto e aveva detto “Andiamo a scavare.”

Il segno che aveva lasciato dodici anni prima era un bastone di legno dipinto di rosso conficcato nella terra. Lo cercarono tra gli alberi, abbagliati dai raggi di sole obliqui. Lo trovarono tutto scrostato e marcio in un fitto di felci, impigliato tra i rami.

“Non è qui che dobbiamo scavare, il bastone si è spostato.”

“Chi lo ha spostato?”

“Forse il vento, la natura.”

“E ora come facciamo?”

“Cerchiamo nei dintorni un castagno molto grande e sassi bianchi disposti in cerchio.”

Camminavano curvi sul sottobosco come cercatori di funghi, procedevano con ordine, quasi in silenzio. Suo nonno fumava il sigaro e ansimava. Ogni tanto rideva e bestemmiava. 

“Dio cane, dodici anni sono passati, ti rendi conto? Dodici anni.”

“Perché hai fatto passare così tanto?”

“Ho dato il tempo ai vermi di fare un buon lavoro. E poi me lo sono dimenticato.”

Trovarono il castagno grande e i sassi bianchi ricoperti di muschio. Il nonno disse: “Riposiamoci” e si sedette sulla terra nuda con la schiena appoggiata al tronco dell’albero. Era sudato, teneva gli occhi socchiusi e la faccia alzata verso il sole, i denti scoperti come una specie di sorriso o di sofferenza, il bambino non ne era sicuro, o era un sorriso o era dolore. 

Parlò massaggiandosi il petto e il braccio sinistro. Disse: “Cantami quella canzone che mi piace.”

Ma c’era qualcosa di allarmante, il bambino lo capiva , forse il fatto che suo nonno si fosse seduto sulla terra umida sporcandosi i pantaloni di muschio e di fango. O il sorriso. O il fatto che avesse buttato il sigaro lontano dicendo: “Vaffanculo, sigari di merda.”

“Quale canzone?”

“Quella con le budella.”

“Bruceremo le chiese e gli altari! Bruceremo i palazzi e le regge!”

Si fermò a guardare il nonno che sembrava addormentato. Non sapeva cosa fare.

“Vai avanti, continua a cantare.”

“Con le budella dell’ultimo prete impiccheremo il Papa ed il Re!”

“Ancora una volta!”

Cantarono insieme: “Con le budella dell’ultimo prete impiccheremo il Papa ed il Re!”

Ora sorrideva, ne era certo. Sempre tenendo gli occhi chiusi e la faccia verso il sole, sempre con il corpo abbandonato contro l’albero come se dormisse ma ora sorrideva.

“Come farei senza di te? Aiutami ad alzarmi, scaviamo.”

Il suo corpo era grande e duro, così pesante, così forte. Suo nonno era caldo e puzzava di sigaro. Il più forte della casa, quello che svitava il tappo dei barattoli di vetro che non volevano aprirsi. Era lento, non correva mai, aveva l’avambraccio grosso come una coscia del bambino e i peli bianchi su un petto immenso. Aveva un corpo misterioso, più che altro immaginato, il bambino non lo aveva mai visto spogliato.

Scavarono. Con le pale che si erano portati da casa. Scavarono piano, per non rompere niente e finalmente a quasi un metro di profondità trovarono qualcosa di bianco.

“Eccolo qui, finalmente, ecco Bakunin.”

Il nonno lo prese dalla terra con le mani, duro e rotondo, lo pulì strofinandoselo sulla camicia di cotone, gli stava tutto dentro il palmo.

“Guarda che bello, guarda che orbite grandi e che bella mascella.”

“E il resto del corpo?”

“Ossa troppo piccole, si saranno sparpagliate nella terra, ma a noi interessa il teschio.”

“Lo posso toccare?”

“Certo. A casa lo laviamo, lo voglio tenere sulla mia scrivania come fermacarte. Il vecchio Bakunin era un gatto favoloso, con la testa e le palle belle grosse.”

Era ruvido al tatto e incredibilmente pulito, non gli faceva impressione toccarlo.

“Di che colore era?”

“Tutto nero. Era il gatto di tuo padre.”

La sera c’erano stati i fuochi d’artificio. Subito dopo cena, quando nel cielo si vedevano ancora strappi rosso scuro, erano iniziati uno alla volta, prima i meno belli poi piano piano quelli più spettacolari. In paese festeggiavano San Michele. Ma il paese era lontano e il bambino e la madre si erano messi in giardino a guardare i fuochi da lontano.

“Sei sicura che non dobbiamo chiamare il nonno? Se viene a sapere che ci sono stati i fuochi d’artificio e non lo abbiamo svegliato si arrabbia.”

“Il nonno non si sente bene, lasciamolo riposare.”

Peccato. Davvero un peccato perdersi i fuochi.

Quella notte il bambino aveva avuto difficoltà ad addormentarsi, all’una era stanco di girarsi nel letto da un fianco all’altro, di buttare il cuscino a terra e di riprenderlo, di provare a infilarselo tra le ginocchia senza mai trovare la posizione giusta. Era uscito dalla stanza, sua madre e suo nonno dormivano. Era andato nello studio e aveva guardato Bakunin. Quello che resta di Bakunin. Sembrava un animale serio e attento ma gli serviva una foto di quando era vivo, doveva chiedere alla mamma se in casa ce ne fosse qualcuna. Disse sotto voce: “Buona notte, Bakunin” e se ne tornò in camera.

La mattina dopo fu svegliato dalla sirena dell’ambulanza che veniva a prendersi il nonno. Ma il nonno era già morto e non gli permisero di vederlo.

“Io non ti capisco. Non hai pianto neanche una lacrima per la morte di tuo nonno e adesso si scopre che la vera tragedia è che non lo seppelliscono nella terra. Che vuol dire?”

Dopo il funerale aveva seguito sua madre e gli altri adulti che avevano partecipato a una piccola cerimonia nel giardino di casa, poi li aveva seguiti al cimitero aspettandosi di vedere la bara calata nella terra. Aveva pensato che ci avrebbe messo più tempo di Bakunin perché era dentro una bara di legno. Ma non importava, lui era un bambino, aveva tutto il tempo che serviva. 

Quando gli avevano detto che la bara sarebbe andata a finire in una parete di marmo si era messo a urlare per cercare di impedirlo, poi a piangere quando aveva capito che non sarebbe riuscito a impedirlo. 

“Ma devono decidere i becchini?”

“Non dire questa parola e calmati. No, non decidono i becchini.”

“E allora stammi a sentire, mamma, facciamolo seppellire nella terra, ti prego.”

“Senti, tesoro, adesso non si può ma ti prometto che farò di tutto per farlo spostare. Spiegami solo perché per te è così importante.”

Si era pulito il naso con il polsino della camicia e aveva provato a smettere di piangere.

“Se no poi come facciamo a riprenderci quello che resta?”

A casa sua madre gli aveva dato solo del succo di arancia e dei biscotti per pranzo. 

“Sono a pezzi, dormo un paio d’ore. Ti ho lasciato le foto sul tuo letto. Se ti dovessi sentire troppo solo e triste vieni a svegliarmi, anzi, vieni a dormire con me. Va bene?”

“Va bene.”

Le foto erano un mazzo alto dieci centimetri legato con lo spago, lui entrò nella stanza e lo vide al centro del letto sfatto. Si sdraiò senza neanche togliersi le scarpe, guardò le foto per ore, per tutto il pomeriggio, finché non fece buio e allora accese la luce e continuò a guardare le foto una per una. Suo padre, suo nonno e Bakunin, vivi, prima che lui nascesse, in quella stessa casa, con lo stesso caminetto, loro tre e la mamma che sembrava una ragazza. Vide delle cose che ora non c’erano più, una macchina scura parcheggiata in giardino, un divano a righe bianco e giallo. Sua madre e suo padre si baciavano. Il nonno impugnava il gatto come se fosse una mitragliatrice e rideva ed era proprio vero, Bakunin era un gatto favoloso, tutto nero, con la testa e le palle belle grosse.

L'autore di questo racconto

  • Ha più di quarant'anni (67%, 8 Votes)
  • Ha meno di quarant'anni (25%, 3 Votes)
  • È una donna (33%, 4 Votes)
  • È un uomo (58%, 7 Votes)

Total Voters: 12

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Per il 67% l’autore di questo racconto ha più di quarant’anni, per il 58% si tratta di un uomo. 

L’autore di questo racconto è…

 

Luisa Brancaccio è nata a Napoli nel 1970. 

Ha esordito nel 1994 con un racconto nel volume collettivo Bambine cattive, curato da Antonella Fiori. Nel 1996, con il racconto Seratina, scritto a quattro mani con Niccolò Ammaniti, partecipa alla famosa antologia einaudiana Gioventù cannibale, uscita per la cura di Daniele Brolli: il libro ottiene un grande successo e diventa un caso editoriale e letterario. Quattro anni dopo partecipa ad un altro volume collettivo, Italia odia, confermandosi autrice di culto. Nel 2013 viene pubblicato da Einaudi il romanzo Stanno tutti bene tranne me: “Alberi, costellazioni, cani, insetti, rampicanti sono ovunque tra le pagine di questo romanzo d’esordio feroce e nello stesso tempo toccante. La storia è potentissima e la scrittura capace di continue accensioni, lo sguardo sulle vicende umane è quasi naturalistico, senza giudizio, ha qualcosa di scientifico, seziona e analizza concetti giganteschi e solidissimi come la famiglia, il sesso, la vita e la morte rivelando un talento spiazzante.”

Vincitore della menzione speciale per il soggetto e le tematiche trattate al Premio letterario Hermann Geiger (2014).

Vincitore del Premio John Fante opera prima (2014).

Vincitore del Premio Opera Prima “Stefano Tassinari” Al Premio Letterario Nazionale “Paolo Volponi” (2014).

Finalista Premio letterario città di Rieti 2015

 
Posted in Scrittori AnonimiTagged
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