Sono un territorio sacro e terribile. A Sant’Agata vennero asportate quando si rifiutò di concedere le proprie virtù a Quinziano, sadico console romano d’istanza a Catania. Era il 250 d.C e anche a quel tempo gli uomini sapevano bene come privare una donna della sua femminilità: non esiste punizione più atroce che negare i seni a una donna, e la cattiva notizia è che spesso il processo di negazione parte proprio dalle donne stesse, quando l’accettazione della protuberanza morbida toracica diventa difficile e si ritiene improrogabile il ricorso alla chirurgia. Come se il peso della femminilità possa essere proporzionale al peso di una tetta; come se il volume e l’ampiezza di un seno siano da considerare speculari al volume della massa grigia.

Andiamo alle origini. Torniamo a quel fantastico mondo, negli anni dimenticato, fatto di capezzoli doloranti e stupore. Avevamo dodici anni, forse undici, quando indossare una maglietta diventava un problema, quel cotone che strofinava contro la carne tenera e in fiore e ogni movimento provocava atroci dolori. Mi vergognavo di chiedere a mia madre un reggiseno, avevo paura che fraintendesse: non è che vuoi crescere prima del tempo?, immaginavo mi chiedesse. Anche perché le mie minnuzze erano davvero inesistenti, a dodici anni come adesso, ma a me sembrava d’essere una super-iper-mega maggiorata, quel capezzolino che spuntava rotondo e pulsante dal petto d’ossa, areole arroganti ma decisamente poco sviluppate. Nessuno faceva caso a quella nuova magia del corpo, solo io. Perché mai avrei dovuto chiedere un reggiseno? Cosa avrei dovuto reggere? Mettevo delle fascette, almeno così potevo proteggermi.

 

Arrivò poi l’adolescenza. Avevo quindici anni e non avevo mai indossato un reggiseno. Non avevo mai guardato i grossi seni delle mie amiche con invidia, le mie tette si facevano molto i cavoli loro. Forse perché la ciccia attorno al capezzolo era aumentata, la pelle tesa e lucida, le vene blu visibili sotto la pelle: da una 0 ero arrivata a una seconda e adesso, se chiudevo le mani a coppa, potevo stringermi donna e finalmente rigogliosa. Smisero di far male e se ne stavano lì con gli occhi all’insù, verso il cielo, completamente prive di coscienza. Perché, bisogna dirlo, le mie tette non hanno personalità e, nell’imbarazzo, hanno scelto di starsene con in pensieri per aria, mentre nel mondo accadono cose terribili di cui loro non si curano. Con gli anni le mie tette sono diventate sagge: non più sfere di piacere, ma morbide appendici dello spirito. Eppure, separarmene, diventerebbe insostenibile. La separazione non avviene solo quando la malattia ha deciso di sacrificare l’unica parte santa del corpo: l’ombra che si distribuisce e si propaga nel seno impone a molte donne una drammatica, perfida e mutilante separazione. Il corpo, bacchetta magica che governa il mondo, non può essere ostacolato. E’ inimmaginabile il dolore e il senso di sconfitta che prova una donna quando la malattia sceglie cosa fare del suo corpo, del suo seno.

Ma se la separazione è così terribile, non si spiega perché così tante donne sane cercano di allontanarsi dalla natura originaria del proprio seno: riempirlo di plastichina non è forse una forma di mutilazione? Quando non c’è malattia, non c’è minaccia, perché la negazione diventa così assoluta e definitiva? E’ come se, talune, riponessero le loro femminili speranze nelle loro tette: non è una questione di sola giovinezza, dato che un gran numero di donne giovani ricorrono alla chiurgia plastica; è una questione di “appetibilità”. Eppure le minne sono, per costituzione, appetibili, qualsiasi forma assumano: nutrono, accolgono, riscaldano, dispensano latte o veleno.

“E benedetto è il frutto del tuo seno”: esiste frase più magnifica di questa?

Benedetto è il seno che benedice, areole come aureole di santità perfetta fatta di carne, piacere e nutrimento.

Ripigliamoci le nostre tette, ridefiniamo la nostra integrità femminile, il supremo orgoglio di essere nate da sfere luminose e precise, dispensatrici di vita, d’amore e di sogni.

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