Tra le rappresentazioni adulte dell’adolescenza prodotte dall’immaginario contemporaneo, la strategia narrativa e la qualità dello sguardo implicite in The dreamers di Bernardo Bertolucci hanno il sapore di una eccezione. Il voyeurismo ostentato del regista, infatti, centra il bersaglio partendo da un presupposto morale socialmente «illecito», privo di cittadinanza e legittimità. Sono le emozioni e i desideri la materia prima dell’intelligenza del mondo, intelligenza politica compresa. Nel grande appartamento di Parigi, da cui raramente si esce, la macchina da presa, spiando i ragazzi, adeguandosi alla loro maniera di abitare lo spazio, compie il miracolo di renderli pienamente visibili, ed è proprio questa la posta in gioco. Che forma ha la vita? Che figure disegnano i corpi? Quale è quel limite da raggiungere per fare sì che la bellezza si riveli interamente? Questioni care al voyeur: che a differenza di ogni tipo di pedagogo o «esperto», dei suoi adolescenti vuole custodire l’unicità, l’irripetibilità, la singolarità. E quella della relazione tra chi sta dietro la macchina da presa e chi le sta davanti è la vera storia raccontata dal film di Bertolucci, anche molto più interessante di quella che vediamo scorrere sotto i nostri occhi. Davvero una storia essenziale: civile in quanto erotica, profondamente morale perché perversa. Il voyeur sta al polo opposto dell’atteggiamento psicologico e della maniera di conoscere che il mondo adulto riserva ai suoi ragazzini. Atteggiamento variamente incarnato da professori, genitori, preti, sociologi, giornalisti, «esperti» a vario titolo, imbonitori, manipolatori… Ridotta all’osso, al suo nucleo di brutalità non ulteriormente scomponibile, l’ideologia pedagogica contemporanea è perfettamente rappresentata dalle retate nelle scuole a caccia di spinelli. Pubbliche messe in scena di valori e interdizioni di cui non è solo da notare la brutalità poliziesca in sé, ma il fatto che questa riconosca nella scuola il luogo privilegiato, lo spazio simbolico più consono alla sua manifestazione. E del resto, la natura sadico-nazista di questa filosofia dell’«educazione» contemporanea non ha raggiunto il suo tetro trionfo proprio lì, alla scuola Diaz ? Tanto più preziose, in questo sconsolante paesaggio mentale e politico, le voci che arrivano dall’altra parte della barricata. Tali sono, scontati tutti i sospetti di editing, due diari di ragazzine di quindici anni – quello di Melissa P., 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire (Fazi, pp.143, euro 9,50) e quello di Zoe Trope, tradotto in Italia con il brutto titolo Scusate se ho quindici anni (trad. di Cristiana Mennella, Einaudi «Stile libero», pp. 253, euro 9,00) – diventati in poche settimane dei best-seller irresistibili. E ancora una volta, dobbiamo riconoscere l’elementare verità alla base del film di Bertolucci: che la consideriamo come una merce, o come un luogo di conflitto politico, o ancora come un oggetto di desiderio, o tutte queste cose assieme, l’adolescenza ci mette di fronte a un problema di sguardo. Si conosce, come accade alla macchina da presa di The dreamers, solo a patto di essere conosciuti. E anche i diari di queste due scrittrici puberali non contano solo per quello che dicono, ma anche perché, al loro interno, configurano un certo tipo di lettore, una certa qualità dell’attenzione. Il loro successo deriva sicuramente da questo effetto di circolarità: alla fine, l’effetto è che non ci sono differenze essenziali tra l’avere scritto questi libri e l’averli letti. Due varianti della stessa esperienza. A parte il primo canto dell’Inferno di Dante, che è un obbligo scolastico sentimentalmente inerte, l’unico riferimento «letterario» (e dunque, in qualche modo, pertinente a un mondo «adulto») del diario-scandalo di Melissa P. riguarda Lolita. Ma più che un’esperienza diretta dell’arduo e concettuoso capolavoro di Nabokov, il ricorso al modello illustre potrebbe riguardare Lolita come personaggio del cinema – anche lei ormai remake, copia ed ombra di se stessa. Il diario di Melissa copre l’arco di due anni giusti, da luglio 2000 ad agosto 2002. Intrapreso a quindici anni appena compiuti, termina quando Melissa ne ha diciassette. L’identità di chi agisce nel libro e di chi il libro lo scrive è perfetta, fin dal nome. E le scarne informazioni editoriali ribadiscono: «Melissa P. ha diciassette anni». Singolare paradosso: proprio la perfetta messa in scena di questa coincidenza tra chi scrive e chi agisce, questa ostentazione della tranche de vie, finisce per produrre un effetto decisamente «romanzesco». Come un fiore selvatico o un oggetto da prestigiatore, il libro di Melissa si è materializzato in migliaia di copie, in decine di migliaia di mani che lo sfogliano e di occhi che più che leggere, spiano la sua vita. Ogni frase, un nuovo buco della serratura, una nuova indiscrezione reciproca. Sì, reciproca: perché mentre è guardata, Melissa sa di essere guardata. Dunque, più per istinto che per ragionamento, conosce e fa esperienza diretta di questa duplicità di condizione permessa dalla scrittura: che è confessione, ostensione del segreto, e può rendere nudi e inermi di fronte agli altri; ma nello stesso tempo, è in grado di esercitare una sottile e costante violenza sul lettore-voyeur, rovesciando il rapporto di forza, inchiodandolo alla sua curiosità. Non è possibile dire se questa ragazzina di diciassette anni possieda in effetti qualcosa come un «talento». Ma di sicuro, Melissa sa spremere dall’ambiguità tutta la potenza necessaria alle sue parole. Inesorabilmente, ha scalato le classifiche italiane dei libri più venduti, e dopo un trionfale blitz alla Buchmesse di Francoforte, si appresta a spargere i suoi veleni loliteschi un po’ dovunque, Cina compresa. Questa capacità di creare interesse e contagio non può essere imputata solo alla forza del «documento», come fa tantissimo giornalismo stupido, perdendo di vista il fatto essenziale: che, comunque lo si voglia giudicare, un «culto» è tale solo perché trova la sua forma, perché è frutto di un qualche tipo di falegnameria o artigianato. Il libro di Melissa, con il suo titolo così poco memorabile, non informa su nulla in particolare, su nulla che già non si sappia. Né, d’altra parte, possiede una qualche apprezzabile sapienza narrativa. A conquistare, semmai, è un elemento ancora più vitale e segreto della seduzione romanzesca: la presenza costante di una voce, l’eco di una vibrazione fisica rimasta per miracolo impigliata nella rete del linguaggio. Il linguaggio «riferisce» quello che è accaduto. E’ il principale alleato della memoria nella costruzione di un senso dell’esperienza. Ma quel residuo di voce annidato fra le parole scritte è sempre pronto a rimettere tutto in gioco, e a esprimere la presenza di un’ulteriore zona d’ombra, fatta di segreti ancora più oscuri e vergognosi di quelli che le parole catturano e spiattellano sulla pagina. C’è da sospettare che il «segreto» di Melissa stia proprio in questo strano equilibrio, in questo convivere della reticenza e della confessione. Anche Zoe Trope, coetanea americana di Melissa, nel suo diario-epistolario-memoriale Scusate se ho quindici anni dice e non dice: o meglio, tanto più dice, quanto più allude a qualcosa d’altro, e lo recinta di silenzio. La Catania di Melissa e la Portland di Zoe, quanto a loro, differiscono solo nei particolari. Sono lo scenario di un giro di vite, di una metamorfosi irreversibile, di una seconda nascita. Da questo punto di vista, la storia che Melissa e Zoe ci raccontano è la stessa: noi nasciamo una prima volta entrando nella vita, e una seconda quando scopriamo l’eccitazione sessuale. Eventualmente, anche la soddisfazione sessuale, certo. Ma l’eccitazione è un ingrediente più vitale sia dell’esperienza sia della storia che la racconta. Attraverso la lente umida dell’eccitazione, infatti, il mondo acquista una leggibilità del tutto inedita e inaspettata. Si potrebbe definire l’eccitazione come una sottilissima zona di confine, un’area di passaggio tra il piacere della masturbazione e il piacere condiviso con gli altri. Melissa e Zoe fotografano in progress questa condizione intermedia e transitoria che sembra proprio il carattere più profondo dell’adolescenza. Non solo la loro identità, ma gli altri, e gli spazi e le cose contenute dagli spazi, in una parola tutto il loro mondo, è sottoposto alla deformazione di una smania senza tregua. E la forma-informe del diario con tutte le sue date è l’unica che può rendere conto dello sbocciare di un’identità sessuale in un determinato periodo di tempo. Eppure, sia per Melissa che per Zoe, immerse fino al collo nell’avventura della metamorfosi e della scoperta di sé, questo tempo è tutt’altro che uniforme, quanto alla velocità del suo scorrere. E’ lentissimo, e infligge tutte le pene dell’impazienza e dell’attesa; ma è anche velocissimo, sempre capace di portare rivelazioni e cambiamenti decisivi nel giro di un quarto d’ora. Tra queste due ragazzine che scrivono il loro diario, ovviamente, ci sono anche profonde differenze. Zoe Trope (sin dall’ironico pseudonimo, omaggio a Coppola e allo show business), fiera dei suoi chili di troppo e della nascente consapevolezza di essere lesbica, appare molto più «evoluta» culturalmente di Melissa, la Lolita catanese. Ama Bukowski e Genet, è istintivamente interessata a forme espressive d’avanguardia, vorrebbe essere Chuck Palahniuk (un «pazzo favoloso»). Il suo destino di scrittrice a tutti gli effetti, insomma, sembra già segnato dal momento in cui prende la penna in mano per parlare dei suoi amori e dei suoi giorni di scuola. Ha scoperto che scrivere la collega facilmente alle fonti più essenziali della sua energia vitale: se scrive della sua capacità di amare, insomma, sarà amata, e respingerà vittoriosamente gli spettri dell’insicurezza. Bulimica e anarchica, brava a scuola e indifferente a tutto ciò che le viene imposto dagli adulti, consumista e libertaria, Zoe resiste, manipola, prende tempo oppure brucia le tappe. Se assorbe modelli e pensieri dall’esterno, com’è fatale, rivendica sempre la possibilità di adattarli alle sue misure (si sente bella, dopo un giorno felice, come «Julia Roberts con la bocca più piccola o Tom Cruise con il cazzo più grosso»). «Passo più tempo a mastrurbarmi che a studiare», scrive Zoe tentando un bilancio onesto della sua vita. La scrittura è rapida, e a volte capace di catturare immagini e desideri sorprendenti. Sorpendente è anche il fatto che non si capiscono mai bene i confini tra le pagine di diario e quelle che appartengono a lettere spedite ad amici e amori. Il tono non cambia di nulla, perché Zoe, nel momento stesso di scrivere, non importa se rivolgendosi a se stessa o a qualcun altro, è sempre consapevole di esporsi a uno sguardo anonimo e collettivo, conseguenza di quel meccanismo che ha trasformato il quaderno della ragazzina in un libro che ha venduto migliaia e migliaia di copie. Confrontato a quello di Zoe, il diario di Melissa esprime una soggettività meno composita, e una sovrana indifferenza per l’aspetto «letterario» della sua confessione, che finisce, giocoforza, per risultare anche più interessante di quella della sua coetanea di Portland. Melissa scrive in un buon italiano, quello in sostanza del compito in classe, la sua rovente e variegata iniziazione sessuale. Questa scelta risulta alla fine felice, perché la stacca da quel linguaggio internazionale «della tribù», da quello «stile e-mail» in cui la cinica e intelligente Zoe sguazza tanto felicemente. Il fatto è che per lei il linguaggio non è un luogo mentale particolarmente inventivo, né esprime il bisogno di appartenere a una comunità mediante segni di stile riconoscibili come quelli del vestiario. Per lei, in questa fase della sua vita, le parole scritte contano per altri motivi: c’è qualcosa che la affascina nel passaggio dall’esperienza alla scrittura, un prodigio che, come tutti i prodigi, può essere evocato anche dalla più logora delle formule: «caro diario…» Questo stupore sembra renderla, prima di tutto, anche lettrice di se stessa, e si comunica facilmente ai lettori effettivi. Ovviamente, un massimo di efficacia Melissa lo ottiene, proprio grazie al contrasto tra l’incandescenza della materia e il gelo della lingua, nelle parti del diario che contengono gli episodi più «porno». Di fronte a tutti i bivi o o trivi lessicali che si aprono sempre davanti a chi vuole nominare il sesso e le parti del corpo coinvolte nel gioco sessuale, Melissa sceglie quasi sempre la soluzione più castigata. O addirittura inventa un suo lessico anatomico, con l’«Ignoto» che spunta dai pantaloni dei primi ragazzi al quale corrisponde il suo «Segreto». Così facendo, sopprimendo cioè ogni traccia di oralità dalla frase scritta, Melissa ottiene un effetto di straniamento che a volte risulta molto efficace e originale. Come quando racconta della prima volta che prende in bocca l’«Ignoto» di uno dei suoi ragazzi, fino all’orgasmo che arriva come una sorpresa nella sorpresa: «Poi improvvisamente c’è stata un’altra sorpresa e in bocca mi sono ritrovata un liquido caldo e acido, assai abbondante e denso. Un mio sussulto improvviso a questa nuova scoperta ha provocato in lui un leggero dolore, mi ha afferrato la testa con le mani e mi ha spinto verso di lui ancora più forte». E’ nei frammenti come questo, c’è da credere, che Melissa ha realizzato il massimo potere di seduzione, ha intonato al meglio quel suo canto di sirena che è sembrato così irresistibile a tanta gente. Perché il timbro dell’autenticità si riconosce d’istinto, e si subisce volentieri la sua forza di persuasione, il suo prestigio psicologico. Ma Melissa non carica il linguaggio di questa responsabilità, non affida né alle parole né al ritmo delle frasi la minima traccia personale. E al grado zero dello stile e della «letteratura», la sua macchia umana, per dirla con Philip Roth, si rende visibile e perfettamente definita come in una soluzione di contrasto. Melissa la liceale, in fin dei conti, compie un’operazione molto sottile: accetta e subisce una lingua del tutto esterna a lei, una lingua «corretta», assennata, grammaticale che è esattamente quella che gli adulti insegnano a scrivere ai ragazzi. Ma trasforma questa passività nella sua forza: facendosi padrona, quando è necessario, di quella lingua estranea che subisce. E del resto, con perfetta specularità tra il piano dell’espressione e quello dei contenuti, la storia raccontata nei due anni del diario è molto simile, e riassumibile in questa formula: «mi sono prostrata al suo volere pur di assecondare i miei capricci». E se la vita sessuale di Melissa assume, nel giro di pochi mesi, una decisa tonalità sadomaso, è proprio perché il sadomaso è un insieme di pratiche e fantasmi in cui è decisiva l’inversione dei ruoli e il sovvertimento improvviso della gerarchia di potere. Sul filo di questa definitiva ambiguità, il libro di Melissa ci racconta una strada possibile nel mondo, un itinerario della conoscenza. E in quanto tale, andrebbe rispettato e compreso, assieme ai suoi lettori, senza trasformarlo nell’ennesima occasione di pettegolezzi, moralismi, scandali da cortile. Ma per fortuna, possiamo constatare ancora una volta che la cosiddetta «informazione» non aggiunge e non toglie nulla alla vita reale di un’opera inquieta e bizzarra. A Melissa non resta, forse, che fare un augurio: speriamo che il suo prossimo libro non sia un romanzo, o qualche altro tipo di prodotto-gadget sociale largamente rassicurante e consumabile. Speriamo insomma che non perda, una volta promossa a «scrittrice», il furore adolescente dell’esperimento e della scoperta.

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