MARA

Nino porta via con sé il suo pugnale e dice allontanandosi che prenderà quante più patelle possibili. Lo guardo correre verso la spiaggia mentre uno strano presagio mi attraversa tutta la pelle. Nino mi mette sempre paura. Prendo la sdraio verde consumata dal sale e la trascino davanti al portone della chiesa sconsacrata di Sant’Alessio messa in ombra da una magnolia e dai palazzi sgangherati rifugio di gatti randagi. Il silenzio innaturale e dolcissimo di un qualsiasi pomeriggio d’estate, riesce a farmi sentire i treni che trasportano i villeggianti da Catania a Messina. Le ciabatte di un passante che toccano l’asfalto, le ali di un piccione che sfiorano i fregi della chiesa, e in mezzo a tutto questo scivolo nel sonno, con la veste a fiori di mia madre tirata su fino alle ginocchia e il collo leccato dal sudore. Quando mi sveglio il sole è quasi calato. Mi tocco la pancia con la paura che sia scoppiata. No, è ancora qui, attaccata al mio corpo come un polpo allo scoglio, grossa e dura, custode di un tesoro illegittimo, scandaloso. Un tesoro concepito vicino al mare, una notte, dietro una barca corrosa dalla salsedine.

Mio nonno diceva sempre che il mare è capace di tante cose. “Il mare dà la vita e la toglie pure”, diceva, “il mare è una grande mente e i pesci sono tutti i suoi infiniti pensieri. Il mare non dimentica niente, Maruzza mia, si affeziona ai suoi ricordi e li tiene incollati ai suoi fondali”.

Il mare mi ha dato questo enorme masso che porto dentro la pancia. Vorrei tirarlo fuori e ridarlo alle acque, ma Nino non me lo permetterebbe. Lui è uno serio, crede ancora in certe cose, ha i suoi valori. Ha diciassette anni, uno più di me, e sembra che abbia dimenticato di essere al mondo da così poco tempo. Sembra che lui esista da sempre e forse è per questo che non riesce ad avere paura di niente, né della vita né della morte. Né del mare.

Eccolo, lo vedo arrivare.

Ma quello cos’è, sangue?

NINO

Questa è l’ora migliore. Il sole picchia forte e in pochi hanno il coraggio di scendere in spiaggia adesso. Non ci sono bambini, non ci sono mamme che mi guardano apprensive mentre scompaio fra le onde con il pugnale in mano. So quello che faccio.

In paese qualcuno dice che sono un arrogante, che sono freddo. Che sono strano. Quando Mara mi insapona le spalle mi rassicura, mi dice che non ho nulla di strano, che parlare poco con la gente è forse la scelta più saggia che si possa fare. Io le credo, ma cerco di non incontrare nessuno. Così scendo in mare, armato del mio pugnale. Per le patelle. Per rendere orgogliosa Mara.

Anche oggi entrerò nella grotta, dove l’acqua è più chiara e l’aria più rarefatta. C’è una crepa non troppo grande che non sono ancora riuscito a penetrare. Oggi ci proverò. Là le patelle saranno attaccate agli scogli a grappoli.

Lontano un padre e un figlio stanno esultando, hanno appena pescato un pesce nero. Brilla al sole come una serpe. Anche io fra poco avrò un figlio e lo battezzerò con l’acqua salata di Sant’Alessio, dove sono nato, il posto che mi vedrà sempre fedele a sé, perché io sono uno che non tradisce.

Dentro la grotta il silenzio è bianco e spettrale, l’acqua ristagna ed è caldissima. Passare attraverso la fessura è difficile, così tiro in dentro la pancia prendendo tutta l’aria dai polmoni, le costole sono così sporgenti che strofinano contro la roccia tagliente. Mi taglio, ma non è nulla. La testa è troppo grande e fa fatica a passare, ma con uno scatto riesco a trovarmi completamente dentro. Sembra di essere all’interno di un vulcano. C’è una grande bocca alla sommità che si apre verso il cielo e fa filtrare la luce, abbastanza da notare un enorme pesce morto, senza squame, bianco.

Mi avvicino tenendo più stretto il pugnale, perché con i pesci non si può mai sapere. Sono esseri privi di coscienza, apparentemente innocui. Capaci di tutto. Gli lancio un sasso e non dà segni di vita, morto galleggia e fluttua senza più linfa. Mi avvicino, lo tocco e lo giro con un piede e mi accorgo che è circondato da lunghi capelli e ha una bocca, come quella di Mara. È una donna e non ha i seni. Forse è una bambina, ma ha il viso contratto come quello di una donna che ha sofferto tanto. Qualcosa dentro di me si rompe. E non è la vista della bambina morta che mi disturba, che mi soffoca, che mi fa uscire da questa maledetta grotta che mi taglia il corpo come mille spade, ma è la vista della morte stessa che si dispiega davanti in tutta la sua oscenità.

Non ero pronto, alla morte. Nessuno lo è, ed è per questo che nessuno deve sapere, nemmeno Mara. Se si sapesse che nel nostro mare è stato trovato un morto, quest’anno, addio turisti, addio compratori di patelle.

ANGELA

Mia mamma dice sempre che i grossi scogli che emergono dal mare di Acitrezza sono stati lanciati tanti tanti anni fa da un gigante di nome Polifemo. Io non le credo, perché tutte le storie che racconta sono false. I giganti non esistono. E questi enormi scogli sono fatti dal sale, modellati dal vento e induriti dal sole.

Oggi sono scesa in mare a mezzogiorno, il cielo è opaco e coperto di nuvole. Lo sapevate che solo qui a Catania abbiamo le nuvole? Loro escono dalla bocca calda dell’Etna e non sono nuvole in realtà, sono agglomerati di fumo. Nessun altro al mondo ha mai visto le nuvole. C’è molto vento, che quasi non si riesce a camminare. La spiaggia è deserta e mia madre non sa che sono venuta qui. Se lo sapesse mi ammazzerebbe. Sistemo la stuoia bagnata che puzza di piedi e mi stendo sopra. Sto leggendo “Miti ed eroi dell’antica Grecia”. Le illustrazioni sono veramente belle. Dopo un po’ arriva della gente. Una donna, un uomo e una bambina della mia età. L’ho vista qualche volta a scuola e mi è sempre stata antipatica. Mia madre dice che mi somiglia, che ha i miei stessi capelli lunghi, i miei occhiali, e quando lo dice mi innervosisco anche se non glielo do a vedere perché sono orgogliosa.

Hanno con sé dei contenitori di plastica e quando li aprono sento l’odore di parmigiana, poi di cotolette fritte e poi ancora di insalata di arance. La bambina non vuole mangiare, si è lanciata in acqua e i genitori urlano “Vanessa, veni ccà, ca l’acqua agitata è!” ma lei non li ascolta e a loro non importa, cominciano a mangiare, prendono con le dita sporche le cotolette e le infilano dentro il pane tagliato a metà. Io li guardo disgustata, penso che siano bruttissimi, con tutto quel cibo in spiaggia… non si vergognano? La madre poi dice di aver dimenticato il caffè, dice al marito che arriva subito, gli chiede se ne vuole uno anche lui. Lui risponde di no mentre si toglie lo sporco in mezzo le dita dei piedi.

Quando la signora se ne va il mio spasso è finito, così pesco fra le pietre una bottiglia mezza rotta  e comincio a lanciare sassi da lontano cercando di farli entrare dentro il cilindro. C’è solo il rumore dei miei sassi e delle onde, potentissime. Vedo il papà dormire, poi guardo la bambina. Sta nuotando come un granchio, quella scema. I suoi movimenti sono sgraziati e imprevedibili, vedo la sua testa nascondersi fra le onde. Ha la bocca aperta e sembra urlare. Continuo a tirare le pietro dentro la bottiglia, mentre lei annaspa e affoga. Non voglio svegliare suo padre, sono curiosa di sapere cosa succede a un essere umano travolto dalle onde. Mi diverta vederla impotente in mezzo a quel frastuono. La mezza bottiglia è completamente piena quando arriva la madre e urla.  La bambina non c’è più. Svuoto la mezza bottiglia, prendo le mie cose, ripiego la stuoia puzzolente e vado da mia madre, che si sarà già svegliata.

 

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